martedì 2 aprile 2013

Gli Appennini narrati da Rumiz


"Chi ha detto che in Italia non c’è più terra incognita? Provate ad infilarvi in Val Quaderna, a pochi chilometri da Bologna, o in altre valli dell’Appennino. Vi perderete. Sentirete un vuoto ansiogeno da altopiano iraniano. Gli Appennini sono deserti e sconosciuti. Li scopri solo se un ingorgo ti espelle dall’autostrada. Soltanto allora ti capita di scoprirne l’infinito e affascinante labirinto. E se spegni il motore, senti un immenso silenzio di cicale, torrenti e lucciole. Altro che Alpi."
Appennino ligure piemontese: la dorsale M.te Chiappo - M.te Giarolo
"E’ scandaloso quanto poco si nomini l’Appennino. Della catena dominate si parla continuamente: convegni sulla transumanza degli orsi, sulle regioni a statuto speciale, i dialetti occitani, il postfordismo del Nordovest pedemontano, la biodiversità nelle Orobie. Non parliamo dell’Alto Adige e dei suoi gerani ai balconi. Eppure le Alpi sono solo la cornice esterna del paese. Gli Appennni invece ne sono l’anima, lo stomaco, la colonna vertebrale. Non bisogna perdere di vista quei becchi inconfondibili chiamati “Pen” che migliaia di anni fa hanno dato il nome al tutto e ancora oggi danno il senso al tuo andare. Monte Penice, Penna, Pennino, Penne, Pennabilli, Pescopennaro. Li trovi dalla Liguria al Molise. Luoghi sacri di cui è rimasto solo il nome celtico e quel brivido che immancabilmente ti prende quando raggiungi la cima, da dove guardi senza fiato l’universo.
Le montagne dei tostissimi Liguri, osso duro di Roma imperiale, sono la continuazione delle Alpi. E, a pensarci bene, anche le Alpi sono solo la prosecuzione della catena Dinarica, la quale a sua volta viene dai Monti Rodopi, dall’Anatolia e dal Caucaso, e oltre ancora fin nel cuore dell’Asia. Se nelle alte valli del misterioso Buthan accendessero un gran fuoco, di cima in cima la segnalazione arriverebbe fin qui, e poi oltre, lungo le cime chiamate “Pen”, per quel promontorio interminabile che si chiama Italia. Fino al monolito dell’Aspromonte, fermo in mezzo al Mediterraneo. Da lì un balzo, il viaggio potrebbe continuare oltre il fuoco da leggenda dell’Etna, e poi oltre Trapani, verso il lungo acrocoro dell’Alto Atlante, dall’Algeria al Marocco, fino alle sponde dell’oceano.
Sulla schiena d’Italia ogni scollinamento ti schiude un universo completamente nuovo.
Attraversando la catena dell’Antola, spartiacque tra Scrivia e Trebbia, tra Piemonte, Liguria ed Emilia, mi accorgo che a parlare non è solo il paesaggio, è anche un flusso umano millenario. Un antico rumore di zoccoli, carriaggi e tamburi. Nelle valli sotto di noi è passato di tutto: Celti e Cartaginesi, Svevi e legioni romane. E poi eserciti napoleonici, armate di lanzichenecchi, leghe lombarde, partigiani italiani, russi e slavi, angloamericani, tedeschi della Wehrmacht, bande irregolari di ogni epoca e tipo.” (Paolo Rumiz, “La leggenda dei monti naviganti”).







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